sabato 12 gennaio 2019

Capitolo III La “polizia” dal XIII al XVII secolo




Nel 1266, chiamato in Italia dal papa, Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, sconfisse Manfredi a Benevento e assunse la corona del regno del Sud. Per decisione di Carlo, la città divenne capitale del regno e non più Palermo e la società fu organizzata in Sedili, organismi democratici che fungevano da mediatori tra il monarca e gli interessi del popolo. Nonostante una forte pressione fiscale, con la nuova dominazione la città cambiò volto: sorsero splendide chiese, fabbriche monumentali, ci fu uno sviluppo di artigianato e commercio, e un rapido incremento demografico.
Anche la giustizia ed i rapporti città-provincia ebbero lievi modifiche rispetto alle Costitutiones federiciane, Re Carlo si inserì in quel solco legislativo per rendere più razionale ed efficace il sistema giuridico[1]. Esemplare la descrizione dei mutamenti fatta dall’Aliberti[2]. I compiti dei sette grandi ufficiali del Regno furono meglio precisati, con la creazione della Gran Tesoreria, affidata alle cure di funzionari e burocrati che poi costituiranno la spina dorsale della Regia Camera della Sommaria. A capo di ogni provincia furono posti i giustizieri, ad incarico biennale e non più a vita. nelle piccole e grandi realtà periferiche la figura del baiuolo era affiancata a quella del capitano. Il capitano era un vero e proprio rappresentante del potere statale, condizionando fortemente l’amministrazione delle comunità locali. Nelle terre demaniali rappresentava il sovrano, nei feudi il barone, il feudatario, che poteva nominarlo. Le funzioni del capitano erano le più varie, amministrava cause civili, militari e nell’esercizio delle sue funzioni era assistito da uno scrivano e da un assessore. Egli inoltre presiedeva il parlamento locale. Stando così le cose il baiulo mutava le proprie, amministrava cause civili e penali di lieve entità e vigilava sulle assise, sui pesi e sulle misure. Spesso nelle realtà locali erano anche eletti sindaci temporanei.  
Per quanto attiene la città di Napoli erano attivi tre tribunali centrali: il Sacro Real Consiglio, con Giurisdizione prevalentemente civile, la Real Corte della Sommaria , una sorta di Corte dei Conti che si occupava sia di contenzioso fiscale sia di controllo della contabilità pubblica, appalti etc. infine la Magna Curia della Vicaria, con competenza penale in generale e civile solo per la città di Napoli[3]. Questa organizzazione dei tribunali è frutto della lenta evoluzione che dai Normanni passa per gli Svevi, gli Aragonesi e poi i primordi del vicereame.
Per quanto attiene la amministrazione della giustizia solo con l'annessione del Regno di Napoli alla corona di Spagna e la sua costituzione in Vicereame 1503, Castel Capuano fu destinato per la prima volta alla funzione di Palazzo di Giustizia. La sua prima sede fu Napoli, trasferita temporaneamente a Frattamaggiore nel 1493 a causa di un'epidemia che colpì la città partenopea. A seguito qui  come accennato supra,  il viceré don Pedro de Toledo riunì tutte le corti di giustizia sparse in diverse sedi in tutta la città: il Sacro Regio Collegio, la Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte Civile e Criminale della Vicaria e il Tribunale della Zecca. Per adattarlo alla nuova funzione, il castello fu trasformato nel 1537 dagli architetti Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa: furono eliminate tutte le strutture tipicamente militari e fu modificato nei suoi spazi interni, mentre i sotterranei furono destinati a prigione dotata di attrezzatissime camere di tortura. Fu merito di don Pedro, tra l’altro, la attenuazione della gogna della “colonna infame”, prevedendo una esposizione a capo scoperto al cospetto dei creditori innanzi al popolo. La Colonna della Vicaria, di marmo bianco e collocata innanzi la porta principale del castello  era teatro, negli anni precedenti, di una ben più meschina ed ordalica usanza. Ove un uomo non era in grado di onorare un debito, egli veniva costretto a salire sulla cima di questa colonna, abbassare i calzoni, e mostrare il sedere alla folla divertita, una vera e propria gogna oltremodo umiliante. La “tortura” aveva termine solo alla pronuncia, da parte del reo/creditore, “cedo bonis” cioè cedo tutti i miei beni.  

La Colonna Infame napoletana
Dall’archivio di Stato sappiamo che[4] la Gran Corte della Vicaria esercitava la propria giurisdizione nel Regno di Napoli. Magistratura di appello di tutte le corti del Regno per le cause criminali e per quelle civili, trova la sua origine nella "Magna Curia" normanna. L'istituzione, ad opera di Carlo II d'Angiò, della Corte Vicaria, presieduta dal Vicario del Regno, portò in seguito alla fusione delle due corti con un solo capo e con la denominazione di Gran Corte della Vicaria. Essa aveva svariate competenze: dal dirimere le questioni relative alle cariche pubbliche e all'esercizio del sindacato, cui erano sottoposti i funzionari pubblici alla fine della carica, all'emanazione di bandi a tutela dell'ordine pubblico e del diritto sulla proprietà. A questo si aggiungeva la facoltà di intervenire in questioni ereditarie, nella salvaguardia dei beni dotali, nell'adempimento di capitoli matrimoniali ed, infine, in questioni relative al riconoscimento della maggiore età. Questo tribunale divenne secondario dopo la creazione del Sacro Regio Consiglio, che rivedeva i decreti della Vicaria e decideva dopo aver udito la relazione del giudice di quest'ultima. La Gran Corte era presieduta da un reggente. Con prammatica del 7 novembre 1798, alla Vicaria, il cui presidente fu detto reggente della Gran Corte, restarono le sole competenze giudiziarie, mentre prevenzione dei delitti e funzioni di polizia in genere passarono al direttore generale di polizia.

Fu in questi anni, tra  il 1507 e il 1707 che tuttavia ci furono gravi situazioni di malgoverno, soprattutto in merito alla pressione fiscale nella capitale del Regno. In questo periodo, per difendere il popolo dalle prepotenze dell’invasore iberico, che nacque e si affermò la terribile piaga della "camorra", nata come società segreta con fini di mutua assistenza[5]. Inoltre è in questo periodo che, complici numerosi eventi bellici, diverse sono le insurrezioni popolari per l’aumento della tassazione ed al tentativo di istituire l’Inquisizione Spagnola anche al Vicerame di Napoli. La più celebre fu quella del 1647, che vide come protagonista il celebre “Masaniello” capopopolo di una folla inferocita- la Napoli arrabbiata l’abbiamo vista con la caduta dell’impero Romano d’Occidente e la vedremo con le rivolte del 1799, con le Quattro Giornate o a seguito del referendum popolare, o ancora in altre occasioni, di temperamento mite arde quando è lesa nei suoi diritti- che combatté per più di un anno i dominatori sino alla presa del Castello del Carmine. Anche qui, nonostante la resa, le guardie cercarono di svolgere azione mediatrice e di evitare il peggio. Ma mantenere l’ordine pubblico fu impresa ben ardua, nonostante ci si riuscì per quasi due anni. Leggenda vuole che la soluzione fu “scientifica”, posta in essere da attività di quella che oggi chiameremo “polizia politica”. 
Tornando a noi, dunque, chiedendoci chi fosse, sino al ‘700, il dominus cittadino della polizia nel coacervo di burocrati e funzionari della Gran Corte? Il capitano di giustizia con i suoi birri-dal latino rossi per la casacca indossata-, detto anche bargello, dal Gotico bargi e dal tedesco burg, col significato di  "torre fortificata". Capitano non sempre da  confondere con quello addetto alla cura della provincia, che deriva dal catapano normanno che abbiamo visto supra. Il bargello agiva con i suoi servi, come nel capitolo XII dei promessi sposi ove c’è proprio una azione di tutela dell’ordine pubblico, durante la rivolta del pane in cui viene braccato l’innocente Renzo, tratto con l’inganno in un osteria da un servo del bargello, fatto alloggiare ed al mattino scampato per miracolo all’arresto del Capitano di giustizia con la figura del verbalizzante, il notaio criminale[6].
Competenza principale del capitano di giustizia era quella di capo della polizia, ed era responsabile dell'amministrazione giuridica della città, della sua difesa e dell'ordine pubblico. In genere si trattava di un nobile cittadino o di un forestiero laureato in legge. Come giusdicente, era subordinato un vicario, dottore in diritto civile e penale; come funzionario di polizia, un luogotenente. La sua giurisdizione riguardava prevalentemente le cause penali.

Il capitano di giustizia dei Promessi Sposi, cap XII, in una edizione illustrata



[1] Pomigliano d’Arco Sistematica Enciclopedia di Storia Locale, Volume I; Crescenzo Aliberti; Graphosprint; Napoli;
pag.73
[2] ivi, pag. 74
[3] Introduzione Storica al Diritto Moderno e Contemporaneo. Lezioni e Documenti; Mario Ascheri; Giappichelli 2003; Torino; pag. 80
[5] Usi e Costumi dei Camorristi. Storie di Ieri e di Oggi; Torre editrice s.r.l.; dalla introduzione di Luca torre, prima pagina
[6] Cfr. I Promessi Sposi; Alessandro Manzoni; capitolo XII

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